Domenica 29 maggio, durante la cena fraterna che segue la S. Messa, c’è stata possibilità – occasione preziosa – di colloquiare con suor Paola Agheorghiesei, delle suore dei poveri, che da qualche anno vive nella comunità sull’isola di Lampedusa. Possibilità unica di poter ascoltare chi ha un’esperienza diretta dei fatti, così diversa dalle immagini ed informazioni mediatiche su cui si basa la percezione e la lettura che ciascuno di noi dà del fenomeno migratorio in corso.
In effetti suor Paola come prima cosa parla dello shock nel vedere gli occhi di quelli che lei chiama i “fratelli migranti”. Persone, essere umani, che sbarcano con il cuore colmo di paura, accumulata nei viaggi lunghi e pericolosi che li hanno visti attraversare grandi territori: pericoli alle frontiere, pericoli dai predoni, pericoli nel deserto, pericoli per i trattamenti disumani di coloro che assicurano i viaggi in camion, che gestiscono i trasferimenti, tra violenze, torture, stupri, ricatti, riscatti, senza alcun rispetto per il valore della persona umana. Perlopiù giovani che hanno aperto gli occhi al cielo, carichi di speranza in un futuro migliore di quello di una morte certa nel loro paese di origine, fino a spingersi oltre il rischio di una morte incerta nell’intraprendere il lungo viaggio, e sovente giunti sulle rive europee con quegli occhi sempre spalancati al cielo, ma ormai senza vita.
Con questa dolorosa immagine, suor Paola ci racconta l’esperienza della popolazione lampedusana che troppe volte deve chiudere questi occhi nei tanti cadaveri che giungono sulle rive dell’isola o che sono ahimè ritrovati nelle reti dei pescatori. Uomini e donne che seppelliscono questi morti tra i loro morti, comprendendo come nessun altro la verità che tanto Papa Francesco ripete per scalfire il torpore dell’indifferenza: sono essere umani. Popolazione che accoglie questi occhi spaventati, traumatizzati, dalla paura di navigazioni improbabili e dalle barbarie vissute e che offre loro un sorriso, un gesto di accoglienza che cerca di rassicurare: “il peggio è passato!”, pur sapendo che questi uomini e donne di buone speranze giungono ora in paesi sovente ostili, per trovarsi nelle sfere più basse della scala sociale. Popolazione che ha distribuito i propri vestiti, il proprio cibo e che sta dando esempio di grande solidarietà ed empatia: virtù che forse nascono dall’esperienza stessa del popolo lampedusano che vive la precarietà, che sa cosa sia la povertà, essere “migrante” per ottenere diversi servizi che non sono offerti dall’isola e che da sempre – trovandosi al confine tra i continenti – ha esercitato l’accoglienza indiscriminata di chiunque, rifugiatosi sull’isola, abbia chiesto ristoro. Una “terra franca” ove anche i nemici dovevano trovare la pace, nel rispetto del diritto di ciascuno di essere accolto.
Suor Paola ci parla così della loro presenza amica vicino a questi fratelli. Fratelli sovente anche nella fede cristiana: con le lacrime agli occhi ci racconta di come giunti ai centri di accoglienza, prima ancora di vestiti o altri beni primari, vedendo le suore chiedano la Bibbia, il rosario, tendano la mano per venerare il crocifisso appeso al loro collo. Parla dei loro canti, delle loro preghiere convinte, della loro fede, visibile quando partecipano alla Messa della parrocchia.
Si percepisce tanta impotenza nelle parole di suor Paola: l’impotenza di non avere il necessario da dare, di non poter prevedere gli sbarchi e le urgenze, di essere sempre “in deficit”. Impotenza che spalanca i loro cuori e che li apre all’abbandono nella provvidenza, all’attenzione alle piccole cose, all’offerta non solo di beni, ma della loro stessa vita.