di Lorenza Moscara
“Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?”
Con questa domanda paradossale il matematico e meteorologo Edward Lorenz inaugurò una conferenza nel 1972 davanti a meravigliati ascoltatori. L’immagine alquanto poetica del battito d’ali, brandita da uno dei pionieri della futura Teoria del Caos, serviva a spiegare una proprietà fondamentale dei sistemi complessi a cui lo scienziato era giunto tramite i suoi studi sui modelli climatici: piccole variazioni nelle condizioni iniziali producono risultati significativamente diversi. Perturbazioni anche localizzate in una parte di un sistema complesso, possono avere profonde ripercussioni in tutto il sistema.
Al di là delle equazioni, per descrivere il suo effetto farfalla Lorenz si era a sua volta ispirato a un libro fantascientifico di 20 anni prima. Nel racconto, in uno scenario futuro, grazie ad una macchina del tempo vengono organizzati dei safari temporali per turisti. Un escursionista catapultato nella preistoria calpesta sventuratamente una farfalla scatenando un effetto domino di eventi e conseguenze che cambiano radicalmente tutta la storia da quel momento in poi, riconsegnandogli una realtà e un futuro del tutto diversi.
Sulle ali della farfalla di Lorenz, ritorniamo all’incertezza dei giorni nostri segnati dall’emergenza Covid-19. L’uragano della pandemia ha fatto precipitare nel caos tutti i nostri sistemi e il movimento vorticoso della massa d’aria è tutt’ora in corso. Più di 300.000 decessi in tutto il mondo, Great Lockdown ed economia globale in caduta libera con PIL in ribasso del 3%.
A occhio e croce, abbiamo pestato più di qualche farfalla. Ma più importante ancora: ora come ci muoviamo? Qual è il prossimo, consapevole, passo?
Nel quinto anniversario dell’enciclica sociale Laudato sì (d’ora in poi LS) abbiamo provato a leggere gli accadimenti di questi tempi attraverso la particolare lente di questo documento con cui Papa Francesco ci ha invitato a interessarci della nostra casa comune proponendoci un nuovo modo di abitare la terra.
Abbiamo condotto questo viaggio nella crisi sui passi della LS nel quinto incontro del ciclo di Educazione alla Coscienza della Pastorale Universitaria. Ci ha accompagnato con sapienza, e gliene siamo grati, proprio uno dei nostri timonieri: padre Marco Asselle, dottore in Scienze Sociali e docente presso l’Istituto Teologico di Assisi.
Ora abbiamo i riflettori puntati sulla crisi pandemica. A guardarla bene, sulla scorta delle parole del Pontefice, ci rendiamo conto che è dentro una crisi ambientale, che è anche una crisi sociale, che ci riconduce ancor prima alle radici culturali di una crisi umana.
La LS ci costringe ad allargare lo sguardo di fronte ad un insieme di sistemi complessi con profonde interconnessioni e allo stesso tempo ad ingrandirlo, nel particolare di quelle relazioni che collegano l’uno all’altro, nel tempo e nello spazio, piccoli atti apparentemente piccoli e isolati. Perché “tutto è connesso”, come ricorda il ritornello attorno al quale si sviluppa il concetto dell’ecologia integrale, pietra miliare di questo scritto del Magistero della Chiesa.
Il Covid-19 è un dato di fatto, appartiene alla realtà in cui viviamo e operiamo. Può anche essere letto come il frutto di alcune nostre scelte. E’ degno di benedizione? Con tutto il rispetto verso la sofferenza che sta spargendo per la terra, se riesce a sollevare il velo di Maya sul modo in cui stiamo ferendo il futuro del pianeta e a convertirci a un nuovo paradigma di vita, si.
La coscienza della realtà
Il primo capitolo dell’enciclica è una disamina della realtà e prende le mosse dalle evidenze scientifiche attualmente disponibili in materia ambientale per farsi portavoce del grido della terra e dei suoi abitanti: l’inquinamento e le sue conseguenze sulle vite e la salute delle persone, il mondo trasformato in un immondezzaio dalla produzione di tonnellate di rifiuti, il problema del cambiamento climatico e del surriscaldamento globale, l’esaurimento di risorse naturali indispensabili come l’acqua, la perdita della biodiversità.
Sapere cosa sta accadendo e che ruolo abbiamo nel determinismo di questi processi non è un’opera di terrorismo psicologico né di mero esercizio di studio o di curiosità. E’ una dolorosa presa di coscienza, un far proprio il problema lasciandosi toccare e interrogare (LS 19). Conoscere quello che sta succedendo significa muoversi dalla ricerca delle cause alla scoperta del proprio compito nel mondo in una dimensione attiva. Il Papa lancia un appello alla concretezza dei percorsi etici e spirituali perché le riflessioni filosofiche e teologiche calate nella realtà, diventino quotidiano pane spezzato. Una teologia non operativa rimane vuota, una cristianità disincarnata e disimpegnata non cambia il mondo (LS 17).
Applichiamo lo stesso metodo e di fronte ai dati che scaturiscono dallo studio di questa pandemia proviamo a chiederci: abbiamo una responsabilità in questa vicenda? Se si, qual è stato il nostro ruolo? Quindi, come siamo chiamati a contribuire per un futuro migliore?
In attesa delle presunte prove dichiarate da Trump che dimostrerebbero come il virus Covid-19 sarebbe stato creato in un laboratorio di Wuhan, una delle teorie più affidabili e tutt’altro che improbabili all’origine del virus è, invece, l’ipotesi di un salto di specie dagli animali all’uomo. Lo spillover che caratterizza le zoonosi è un meccanismo antico e noto alla medicina, tre quarti delle malattie infettive sono riconducibili ad esso. Un patogeno proveniente dagli animali evolve e diventa in grado di infettare, riprodursi e trasmettersi all’uomo. Il virus della rabbia, l’ebola, l’influenza A, l’HIV sono alcuni esempi. In particolare, le zoonosi degli ultimi anni hanno più volte visto protagonisti virus della famiglia Corona, causa appunto delle epidemie di Sars, Mers e l’attuale Covid-19. Si tratta di virus con un tasso di mutazione mediamente più elevato grazie al quale possono più facilmente acquisire quelle caratteristiche che li rendono in grado di riconoscere e penetrare nelle cellule umane, replicandosi efficacemente al loro interno. Il salto di specie necessita in genere di un contatto prolungato tra uomo e animale portatore in origine del patogeno. Più persistente e ravvicinata è quest’esposizione animale-uomo più è statisticamente probabile che il virus muti casualmente in un ceppo in grado di infettare le cellule umane.
Lo spillover di virus nuovi in particolare è favorito dalla nostra frequentazione di specie selvatiche come i pipistrelli che sono il serbatoio naturale di centinaia di virus, compreso, presumibilmente, quello che ci sta affliggendo.
Le possibilità che l’uomo entri in contatto con un determinato tipo di pipistrello sono abbastanza limitate normalmente. Lo sono, a dir vero, un po’ meno se pensiamo che nel mercato di Wuhan da cui è partita l’epidemia si vendono vivi e si macellano animali selvatici tra cui pipistrelli, rane, ricci, serpenti insieme ad animali domestici. Una specie intermedia ha fatto da anello di congiunzione tra i pipistrelli e l’uomo e dall’analisi del genoma virale il maggiore indiziato sembrerebbe essere ad oggi il pangolino. Vale a dire un animale in via di estinzione, decimato dal traffico illegale della sua carne che è servita come cibo pregiato nei ristoranti, e delle sue scaglie, millantate come rimedio nella medicina tradizionale cinese.
Le malattie infettive esistono da sempre ma ci sono evidentemente elementi del modo e del mondo moderno in cui viviamo che facilitano eventi potenzialmente drammatici come quello che stiamo vivendo.
Il commercio selvaggio e l’utilizzo come cibo di animali selvatici è uno di questi.
L’espansione delle aree urbane o antropizzate e la deforestazione hanno sottratto habitat e confinato specie selvatiche costrette a una coabitazione ravvicinata e forzata con l’uomo e con animali domestici, elemento in grado di facilitare lo spillover.
L’aumentata richiesta nella produzione agroalimentare si è espressa nello sfruttamento selvaggio delle colture e nello sviluppo di allevamenti intensivi. La razzia di spazio naturale ceduto alle attività produttive umane ha avvicinato specie normalmente non in contatto fra loro aprendo ad alcuni patogeni un ulteriore strada di diffusione e ponte verso l’uomo.
L’azione umana disturbante sugli ecosistemi ha un peso e delle conseguenze potenzialmente ancora riproducibili in futuro se non imbocchiamo un’altra strada.
Ma c’è qualcosa che ci riguarda ancora più da vicino.
Siamo quasi 8 miliardi di esseri umani di cui più della metà concentrati in grandi centri urbani, ciascuno dei quali talvolta conta diversi milioni di abitanti. La crescita disordinata delle città e il sovraffollamento hanno un ruolo determinante nella trasmissione di un’infezione oltre che incidere pesantemente nella qualità di vita della popolazione (LS 44).
Il flusso quotidiano di persone che si spostano per motivi economici e turistici rende realistico e rapido il trasporto di agenti patogeni da un capo all’altro del mondo.
Inoltre, con i cambiamenti climatici si estendono le aree favorevoli alla sopravvivenza di alcuni insetti o altri animali veicoli di agenti patogeni prima presenti solo in alcune aree geografiche.
Infine, ci sono ipotesi di correlazione tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione del Covid19 e una task force internazionale è stata recentemente istituita per accertare questa associazione.
E’ evidente sotto più aspetti che c’è un contributo umano fatto di abitudini, stili di vita, scelte politiche, economiche e culturali che pesano sull’ambiente e chi lo abita, soprattutto sui più fragili, restituendoci effetti inimmaginati e indesiderati.
Il creato nello sguardo di Dio
Alla luce dell’esperienza che stiamo vivendo, la problematica ambientale sollevata dalla LS, si afferma nella sua complessità. Non come argomento per fanatici ecologisti né tantomeno come semplice preoccupazione “green” in senso stretto.
«L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme» (LS 48) perché sono connessi. «Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati» (LS 139).
La modalità di abitare il pianeta esprime la relazione degli esseri umani fra loro, con la terra e con Dio e i princìpi che guidano questi legami. Forse qualcosa da quel primo principio in cui “Dio creò il cielo e la terra” è andato storto.
Nel secondo capitolo dell’enciclica il Papa ripercorre il messaggio biblico della creazione. La tradizione ebraico cristiana ci consegna l’immagine di un uomo attento alla terra e ai suoi abitanti, chiamato ad amministrare e non a dominare, qualcosa che ha ricevuto in dono ma non gli appartiene. Il creato è affidato alle sue cure e verso di esso il cristiano ha chiari doveri e responsabilità. Di fatto anche una libertà di promuoverne lo sviluppo o causarne il degrado. In questo arbitrio probabilmente si è fatto strada il germe di una frattura fra il progetto divino e la realtà che abbiamo costruito.
I limiti del paradigma tecnocratico
Il paradigma tecnocratico che ha preso piede dagli anni ’70 del secolo scorso concepisce la realtà come un oggetto “informe” e “totalmente disponibile” alla manipolazione umana (LS 106). E’ una visione che conferisce al progresso tecnico-scientifico pieni poteri e che guida il mondo della politica e dell’economia sull’assioma di una massimizzazione del profitto.
Ma, ci ricorda la LS, «che il progresso della scienza e della tecnica non equivale al progresso dell’umanità̀ e della storia» (LS 113).
Lo stiamo vedendo con la vicenda della ricerca di un vaccino contro Sars-Cov-2, speranza a cui è appesa la salvezza di un mondo intero. Svariati leader politici, l’Onu, l’OMS, l’Unione Europea ribadiscono che la cura al Covid-19 è un bene pubblico, che il suo accesso deve essere universale, che il vaccino deve essere sottratto alla legge del mercato. Eppure, è evidente che appena e se sarà disponibile un vaccino, non sarà subito per tutti. Nella giungla della corsa alla cura e dell’accaparramento delle prime dosi si combatte una battaglia geopolitica di dimensioni abnormi.
Già a Marzo 2020 gli Stati Uniti avevano cercato di acquistare per sé il vaccino in studio dalla società tedesca CureVac, garantendosi una precedenza nella distribuzione rispetto al resto del mondo. Dopo l’intervento di Berlino, l’azienda ha ritrattato l’accordo preliminare ed economicamente lusinghiero con Washington. Più recentemente la storia si è riproposta con la ditta francese Sanofi che ha poi dichiarato: “Gli Stati Uniti hanno diritto a un’ordinazione prioritaria dal momento che stanno investendo di più”. Gli americani sono più efficaci nel metterci a disposizione risorse, faccia l’Europa altrettanto.
Ci libererà davvero la scoperta di una cura o la forza dell’investimento finanziario dello Stato a cui cui abbiamo la fortuna o sfortuna di appartenere?
Nel tentativo di far fronte a queste speculazioni la Commissione Europea ha dato il via a una maratona di raccolta fondi e ad un piano di cooperazione globale che unisca gli sforzi economici dei donatori e le conoscenze scientifiche dei paesi che vorranno aderire per arrivare quanto prima a sconfiggere il virus.
L’Europa deve averlo capito, a un certo punto anche a sue spese, che questa crisi era un banco di prova fortissimo per il suo futuro.
L’individualismo, espresso anche come soddisfacimento degli interessi nazionali ad ogni costo, è un effetto collaterale del paradigma tecnocratico. Ricordiamo che la stessa presidente della BCE inizialmente ha avuto posizioni dure nella richiesta d’aiuto da parte dell’Italia che è stato il primo paese europeo pesantemente colpito dalla crisi sanitaria ed economica. “Non siamo qui ad abbassare gli spread” aveva esordito Lagarde, negando una responsabilità della Banca Centrale Europea nel colmare le discrepanze tra i paesi dell’eurozona ed esponendo a conseguenze pesanti i paesi ad alto debito pubblico, come l’Italia.
Il progresso da solo non ci salva o sicuramente non ci salva insieme. Verrebbe da dire con le parole di Papa Francesco che «I progressi scientifici più straordinari, le prodezze tecniche più strabilianti, la crescita economica più prodigiosa, se non sono congiunte ad un autentico progresso sociale e morale, si rivolgono, in definitiva, contro l’uomo» (LS 4).
Nel frattempo, dall’altra parte della terra, la regione dell’India più duramente colpita dal coronavirus sta lottando contro il dramma del contagio e contro l’attacco ai già precari diritti civili. Il leader governativo locale ha decretato la sospensione di quasi tutti i diritti dei lavoratori giustificandolo con la necessità di garantire flessibilità nell’impiego e nella produzione a fronte della crisi in atto. Si alza il carico orario settimanale, scompaiono le norme di sicurezza sul lavoro, vengono meno le disposizioni che regolano il guadagno minimo mensile e i limiti per gli imprenditori di licenziare senza una valida causa.
I milioni di lavoratori sfrattati che si sono ritrovati fuori dalle regioni di origine allo scattare del lockdown, senza soldi, senza cibo, senza assistenza, si sono messi in marcia seguendo i binari ferroviari diretti a piedi verso le loro case. Alcuni di loro sono morti travolti da un treno merci che transitava. Al tempo del Covid-19, qualcuno deve anche scegliere di che morte morire.
E’ la cultura dello scarto, diremmo con le parole dell’enciclica, che «colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura» (LS 22).
Queste voci diverse dal mondo ci ricordano che non siamo tutti sulla stessa barca, né nel microcosmo delle nostre realtà locali né nei raffronti planetari. I balconi da cui abbiamo cantato (almeno per chi ce li aveva) erano profondamente diversi così come le necessità delle persone che abitavano quelle case con le bandiere e i cartelloni appesi alle finestre.
La tecnocrazia non può contenere tutte le dimensioni della vita, manca della visione d’insieme: «La frammentazione del sapere assolve la propria funzione nel momento di ottenere applicazioni concrete, ma spesso conduce a perdere il senso della totalità, delle relazioni che esistono tra le cose» (LS 110).
Il peso del racconto sulla storia
Cinque anni fa il Pontefice ammoniva su alcune «dinamiche dei media e del mondo digitale, che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità» (LS 47).
Non è forse quello di cui abbiamo fatto esperienza? Una comunicazione che prima di individuare un binario accettabile di percorrenza è stata travolgente quanto e più del virus, sovrabbondante e a tratti schizoide. Più che servizio per il cittadino l’informazione è diventata la cassa di risonanza degli stati d’animo generali, anche a prescindere dalla gravità della situazione.
All’insorgenza dei primi casi di contagio in Italia è scattato l’allarmismo: “È la fine del mondo e arriva con i cinesi”. Risposta: razzismo, ristoranti e attività cinesi deserte, e-commerce dall’oriente boicottati.
Poi c’è stata la fase di una certa banalizzazione del problema: “l’Italia non si ferma, tanto muoiono solo i vecchi”. Esito: via libera a un aperitivo in centro, almeno facciamo girare l’economia.
La gincana è continuata con i toni angoscianti e sensazionalistici della stampa alla notizia della chiusura di alcune zone localizzate della nazione. Sono seguiti assalti in massa ai supermercati e rastrellamento di mascherine, alcool e gel disinfettante fino a svuotare le farmacie.
Con alti e bassi tra terrore e minimalismo, l’apice amaro dello slalom mediatico è avvenuto l’8 marzo quando è trapelata la bozza del DPCM che avrebbe allargato la zona rossa a tutta la Lombardia e altre province del Veneto, dell’Emilia e delle Marche. La diffusione sconsiderata di un provvedimento non ancora attivo, ha spinto migliaia di italiani in preda al panico di rimanere lontani dalle famiglie nelle zone soggette a restrizioni e più vicine all’epicentro del contagio, a invadere le stazioni ferroviarie per tornare nei luoghi d’origine. In barba a ogni misura di contenimento e favorendo il diffondersi del virus in altre regioni d’Italia.
Saremo persone migliori dopo questa emergenza?
Non possiamo dirlo, i giochi sono aperti. La storia ci ha insegnato che c’è una grande suscettibilità individuale e sociale agli eventi avversi. Le reazioni, le modalità di risposta agli insulti lesivi fanno la differenza. Alla Rivoluzione francese per esempio è seguita la Restaurazione e il tentativo di tornare all’Ancien régime. Usciti dalla Prima Guerra Mondiale, con i morti ancora da contare e le macerie fresche sul cuore, siamo ricapitolati non molti anni dopo in un secondo dramma globale e distruttivo. Tra i semi di quell’esperienza, deve aver prevalso quello in grado di generare ulteriore odio, soddisfare desiderio di rivalsa ed esaltazione della supremazia. Dai relitti della Seconda Guerra Mondiale e dall’impegno di uomini e donne che avevano vissuto quel trauma e volevano proteggere i posteri dal pericolo di un nuovo conflitto, invece, abbiamo visto germogliare altri frutti.
Un lavoro lungo, contrastato e congiunto da parte di più attori nazionali e internazionali ha portato per esempio all’istituzione di cooperazioni internazionali per la ricostruzione, alla nascita dell’ONU, della nostra Repubblica e della nostra Carta Costituente, all’affermazione dei principi democratici, alla costruzione delle fondamenta del progetto europeo.
Il mondo cambierà dopo la pandemia? Dipende. Non se scegliamo di progredire conservando le vecchie modalità, non se tutto cambia perché nulla cambi.
La via della conversione ecologica
Sulla strada del cambiamento, la LS propone di abbracciare una nuova vision, quella dell’ecologia integrale. Un nuovo paradigma di giustizia che parte dal riconoscimento del «posto specifico che l’essere umano occupa in questo mondo e le sue relazioni con la realtà che lo circonda» (LS 15). Tutto il creato è connesso e ogni pezzo del puzzle è degno di considerazione e di rispetto perché sostiene gli altri tasselli.
Come ogni vera conversione, anche quella ecologica a cui sprona Papa Francesco deve cambiare il cuore, lo sguardo, il comportamento. L’uomo convertito all’ecologia integrale non può non ascoltare il grido della terra senza prestare la mano al fratello che chiede aiuto, battersi contro l’estinzione della foca monaca senza lottare per il rispetto della vita umana scartata. Se c’è una radice comune tra la crisi dell’ambiente e quella della società, i problemi dell’ambiente vanno analizzati insieme a quelli delle persone che lo abitano considerando le interazioni tra contesti familiari, lavorativi, urbani, istituzionali.
L’ ecologia integrale è un invito a sentirsi parte del tutto, solidali e consapevoli «di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti» (LS 202). E’ una sfida lanciata a uomini e donne di buona volontà a lavorare per il bene del mondo, con creatività ed eccedenza, anche se i frutti di quello sforzo li trascenderanno nel tempo e nello spazio.
Queste parole possono diventare concretezza ai giorni nostri ad ogni livello di applicazione e gli esempi si sprecano.
Dalla messa in campo di strumenti economici audaci a sostegno della crisi a una spesa consegnata a domicilio per chi non può permettersi di uscire. Dal rispetto del distanziamento sociale ad una strategia internazionale per lo sviluppo di un vaccino. Dalla vicinanza espressa tramite una videochiamata al lavoro degli organismi preposti per garantire stabilità finanziaria e protezione dalle speculazioni. Da una consumazione al bar servita nel rispetto delle norme igieniche a uno smaltimento corretto dei rifiuti domestici. Dallo sforzo di una produzione locale che si riconverte per fare mascherine a quello di una piccola radio che nasce per tenere compagnia ai suoi cittadini in quarantena. Dalla limitazione dei consumi in base alle reali necessità agli acquisti che premiano la sostenibilità del lavoro e dei prodotti.
Sono esperienze che fanno ben sperare e c’è anche molto di bello nell’umanità di questa pandemia che ha provato a impegnarsi, reinventarsi e farsi vicina per superare la crisi.
Il vantaggio dell’effetto farfalla
L’effetto farfalla ci ricorda una imprevedibilità e un’incertezza delle previsioni sull’andamento di alcuni processi che possono giocare anche a nostro favore. E’ un concetto che risuona anche nell’enciclica: «L’essere umano è ancora capace di intervenire positivamente. Essendo stato creato per amare, in mezzo ai suoi limiti germogliano inevitabilmente gesti di generosità, solidarietà e cura» (LS 58). Se è vero che anche noi obbediamo alla Teoria del Caos e che solo con la conoscenza della variazione delle condizioni iniziali non possiamo determinare cosa accadrà dopo, è allo stesso modo vero che nella responsabilità individuale ciascuno può introdurre elementi di novità, piccoli cambi di rotta virtuosi, perturbazioni in grado di ripercuotersi a cascata nel mondo e negli anni. Poter intervenire sul sistema, ciascuno nella modalità e nel peso relativo alla posizione che occupa, finanche dalle spicciole scelte quotidiane, significa indurre cambiamenti potenzialmente enormi e in grado di modificare il corso delle cose.
Per un cristiano è l’invito a orientare la storia verso il bene. Prendere parte a un progetto rivoluzionario di unità in cui l’uomo è essere amato e amante, anello di congiunzione con il creatore, con il creato e con tutte le altre creature.
Nel caos, la LS è una proposta concreta verso la Pace. Nell’indeterminazione, la possibilità di contribuire a perseguire un’utopia del possibile. Nella singolarità dei piccoli e grandi atti che fanno il presente, una chiamata a concorrere al sogno di Dio.