Dare importanza al dolore per far progredire le cure palliative

MEDICINA

Lo studio europeo Appeal (Advancing the Provision of Pain Education And Learning) sui programmi di studio di 242 facoltà di Medicina delle università di 15 Stati europei ha rivelato un dato allarmante: solo lo 0,2% dell’insegnamento totale di 6 anni di studi di Medicina è dedicato al dolore.

“Il sintomo più frequente in ogni patologia è anche il meno studiato!” (Il Gazzettino, 25 novembre). L’82% delle facoltà non ha un corso obbligatorio sul dolore, e comunque l’insegnamento resta del tutto marginale.

La conseguenza è che il costo del dolore non diagnosticato e non trattato è calcolato tra il 3 e il 10% del Pil di ogni Paese, “senza contare gli immensi costi non quantizzabili in termini di sofferenza individuale, di perduta qualità di vita e di opportunità di lavoro, dignità e gioia, per la persona che soffre ma anche per i suoi familiari”.

Da questi dati traspare come oggi in medicina ci siano “troppa attenzione alla tecnologia e ai numeri” e “poca attenzione al paziente come creatura che soffre”, mentre va ricordato che una diagnosi di inguaribilità “getta il paziente e la sua famiglia in una condizione complessa che va affrontata investendo sulla formazione e con modelli assistenziali appropriati, pensati per abbattere barriere strutturali e culturali” (Avvenire, 15 novembre). Progredire nelle cure palliative significa dunque dare importanza e dignità all’essere umano.

Il 14 novembre la Pontificia Università Lateranense di Roma ha ospitato il Convegno nazionale sulle cure palliative, sul tema “L’ora delle cure”. Nel contesto dell’evento, la professoressa Adriana Turriziani, presidente della Società Italiana Cure Palliative, ha ricordato come quando si parla di “cure palliative” la parola “cura” non voglia dire risoluzione della malattia, ma “la presa in carico globale della persona”, con tutte le sue “problematiche fisiche, psicologiche, sociali e spirituali” (Radio Vaticana, 15 novembre). Le cure palliative “non sono le cure degli ultimi giorni, ma le cure lungo la traiettoria della patologia”.

In Italia, la legge n. 38 del 15 marzo 2010 tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore “al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza”.

Per il bioeticista Antonio G. Spagnolo, direttore dell’Istituto di bioetica dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Roma, nell’orizzonte sanitario italiano la legge ha rappresentato “una novità e un valore”: “anzitutto il riconoscimento che la medicina palliativa non è un’alternativa alla terapia finalizzata a guarire o a limitare il danno legato alla patologia, ma deve procedere in modo parallelo agli altri trattamenti”, e in secondo luogo l’introduzione dell’idea che “una buona medicina deve essere centrata sulla persona, sui suoi bisogni, sulla sua dignità” (Agenzia Sir, 30 maggio).

È quindi fondamentale progredire in questo tipo di cure iniziando da “un’adeguata preparazione degli operatori sanitari”, a cominciare dai medici, che più degli infermieri oppongono “‘resistenze’ considerando le cure palliative ‘altro’ rispetto alla visione di medicina finalizzata soltanto a guarire, e pertanto delegabili ad altri”.

Secondo Antea Onlus Cure Palliative, un’associazione che da 25 anni a Roma assiste i malati terminali, in Italia esistono oltre 15 milioni di malati (pari al 25% della popolazione) che soffrono di dolore cronico (Il Sole 24 ore, 27 novembre). Oltre il 30% delle persone colpite da dolore ha difficoltà a svolgere le normali attività quotidiane.

Roberta Sciamplicotti – articolo del 2.12.2013, tratto dal sito “Aleteia