di Leonardo Varasano
La “Oxford italiana” tra passato, presente e speranze per il futuro.
Tra la seconda metà degli anni Venti e la fine degli anni Trenta del Novecento, la città di Perugia visse un significativo incremento delle occasioni culturali, di valore nazionale e internazionale. In pochi anni si assistette alla ufficiale inaugurazione dell’Università per Stranieri (1926) e al potenziamento della Università degli Studi. Le Facoltà dell’antico e glorioso Studium passarono da due a sei, il corpo docente aumentò per quantità e fama, la biblioteca universitaria venne arricchita, gli iscritti crebbero fino ad assestarsi, attorno al 1930, intorno ai 600. Anche l’edilizia universitaria ebbe, in quel periodo, un incremento ragguardevole (tra le realizzazioni dell’epoca basti ricordare la sede dell’Istituto di Medicina di Veterinaria, l’ampliamento e la sistemazione del complesso ospedaliero di Monteluce o la casa dello studente di Elce). Pur nella pesante assenza di libertà che gravava su tutta la penisola – erano gli anni del fascismo -, Perugia divenne, come la definì, non senza enfasi, Indro Montanelli dalle colonne de Il Popolo d’Italia nel 1937, la «Oxford italiana».
La Perugia di allora, sospinta dalle manie di grandezza del regime, si pensava come “capitale intellettuale delle città minori”, come un “apiario intellettuale” in cui gli studenti si muovevano come “api diligenti e solerti venute a cogliere il polline fecondatore dei fiori spirituali”. I giovani che giungevano a Perugia per studiare all’Università degli Studi o alla Stranieri (complessivamente circa 2000 nel 1938) trovavano un ambiente accogliente, pronto ad adattarsi alle esigenze degli ospiti. In quegli anni, gli studenti dei due atenei godevano di speciali facilitazioni per il soggiorno (esisteva una apposita anagrafe degli affittacamere, suddivisa in più categorie, a seconda delle necessità degli utenti) e per i viaggi ferroviari, oltre che dell’ingresso gratuito a gallerie e musei. L’amministrazione comunale si prodigava in ogni modo per soddisfare le esigenze dei giovani studiosi: esemplare, in tal senso, quanto avvenne nel 1930, quando di fronte alle lamentele studentesche per l’assenza di svaghi, il Podestà prese accordi con il Tennis Club per realizzare un “dancing” ad uso degli iscritti alle due università perugine.
Al di là dell’episodio specifico, pur non insignificante, ciò che colpisce è la volontà della città tutta di connotarsi come centro universitario, culturale e turistico, percependo appieno l’importanza – economica e d’immagine – dell’“industria della cultura”. La cittadinanza era largamente coinvolta nella vita degli atenei, Perugia si identificava innanzitutto con le sue Università. Quella sorta di simbiosi tra la città e l’antico Studium, sarebbe durata fino al 1976, per tutto il lungo rettorato del “re di Perugia”, Giuseppe Ermini.
E oggi? Oggi il contesto è decisamente cambiato. La città di Perugia e le sue università sembrano vivere in condizioni di separatezza e in una sorta di diffidenza reciproca; l’immagine del capoluogo pare scissa da quella del suo storico ateneo; gli enti locali al massimo “dialogano” (con alterni risultati) con le istituzioni universitarie. Emblematico il caso della più importante infrastruttura realizzata nel capoluogo negli ultimi decenni, il Minimetrò, il cui tracciato, ad oggi, non è funzionale ad alcuna Facoltà universitaria. I problemi e le necessità del glorioso Studium sembrano non essere i problemi e le necessità della città. Il marchio “Perugia” sembra separato da quello dell’“Università di Perugia”. E gli effetti si vedono: l’immagine della città si sgretola – nonostante la candidatura a capitale europea della cultura -, le iscrizioni universitarie diminuiscono, Perugia s’impoverisce sotto ogni punto di vista.
Di questo passo la città continuerà ad inaridirsi. Servirebbe una svolta. Servirebbe che Perugia tornasse a pensarsi innanzitutto come città universitaria, come centro di alta cultura, come culla accogliente per studenti volonterosi. Dire Perugia dovrebbe significare dire Università. Come per Oxford, come per Cambridge. O più semplicemente come per la piccola Lovanio, in Belgio: una città che vive con e della sua Università, con e per i suoi studenti.